American Psycho si è ormai guadagnato un posto nella categoria dei film cult. Facilmente fruibile da Netflix, è spopolato anche come meme su internet. Uscito nel 2000, basato sul romanzo omonimo, il film si configura sia come commedia nera che come psicologico.
Il film è ambientato negli anni ’80, il protagonista è Patrick Bateman. Ricco ventiseienne di successo, lavora senza fatica come broker a Wall Street in veste di vicepresidente di un’azienda il cui capo è il padre, abita in un appartamento newyorkese di lusso, è attraente, grazie a una minuziosa routine per la cura del corpo, veste capi firmati Valentino e Armani, è fidanzato con una bella ragazza, la sera prende parte a feste esclusive facendo uso di cocaina, il suo eroe è l’imprenditore Donald Trump. Concretizza lo stereotipo dello “yuppie”, ovvero del giovane imprenditore urbano che si immerge con zelo nella struttura economica, tentando sempre di scalare la gerarchia sociale, per salirne alla cima e ostentare dall’alto la propria ricchezza ai più poveri.
In realtà quella di Bateman è tutta una facciata: è sociopatico, odia tutti coloro che lo circondano, è un maniaco spietato e un assassino.
La pellicola è una satira pungente contro la società tardo-capitalista e rappresenta la condizione dell’uomo che la abita. Una società basata sulle apparenze, sui simboli, sugli status, sui brand, sui beni economici, nella quale ognuno porta avanti uno spettacolo davanti agli altri.
Nel celebre monologo iniziale, Bateman si presenta dicendo prima l’appartamento in cui abita (il possesso economico) che il suo nome (la sua persona), già mostrando quindi implicitamente che la sua identità si basa sul suo possesso. Difatti, dopo aver descritto la sua ossessiva routine mattutina, elencando nomi di prodotti comicamente specifici, precisa che “non esiste nessun Patrick Bateman” che “anche se tu puoi stringergli la mano, e sentire il calore della sua mano, lui in realtà semplicemente non è lì”, mentre rimuove dal viso la maschera esfoliante che applica ogni mattina, con uno sguardo senz’anima. A significare che dietro alla maschera della società non c’è più nulla se non un vuoto. Vive estraniato da sé: è alienato. Non esiste più il suo valore di essere umano, ma solo quello dei suoi averi.
Tant’è che i personaggi, quando conversano fra di loro, si riferiscono alle persone coi nomi sbagliati, le confondono. L’identità di tutti è omologata, vestono e agiscono tutti alla stessa maniera, ingranaggi di una macchina economica.
Sono valorizzati solo simboli di potere vuoti, di facciata, che non portano con loro alcuna realtà: Bateman uccide il suo collega perché ha prenotato prima di lui un posto al ristorante più prestigioso, scaccia irritato la mano di una prostituta che tocca il suo Rolex. Emblematica la scena dei biglietti da visita in tal senso.
La violenza è un tentativo di fuga da questo vuoto, una ricerca di qualcosa di concreto e reale, la carne, il corpo, a cui si accede col sesso, con la violenza, con lo stupro. Ma è una fuga fallimentare, i paradigmi socioeconomici del capitalismo che lo ingabbiano sono ineludibili. Legge in maniera consumistica riviste pornografiche a lavoro, mentre fa sesso si filma per riguardarsi. Lo stesso dominio sulle altre persone, specie sulle donne, è un godimento per Bateman, ed è lo stesso dell’uomo borghese che ama la competizione economica con gli altri e soverchiarli. Un godimento narcisistico, che afferma superiorità: Bateman, mentre uccide il senzatetto per strada, è schifato dal suo odore, come il borghese è schifato dal povero; quando fa sesso con le prostitute, costrette perché in grave bisogno di denaro, si guarda allo specchio, fiero del dominio che sta esercitando.
Le parti finali del film sono dominate da un senso dell'assurdo. La realtà è soffocata sotto la continua finzione ed è ormai irraggiungibile. Paul Allen è morto davvero? È stato tutto insabbiato dal padre potente di Bateman? Era tutto frutto della sua immaginazione? Cosa è successo e cosa no? Non importa: non esiste più vero o falso nell’età contemporanea. Anche se Bateman tenta attivamente di uscire dalla gabbia attorno a lui e confessa al suo avvocato i suoi crimini, la prigione in cui è chiuso ha la meglio. L’avvocato neanche lo riconosce all’inizio, non lo prende seriamente, non lo asseconda neanche, e lo spettatore è lasciato all’oscuro del motivo. L’inquietudine agghiacciante del film, più che nelle scene esplicite, sta nel finale disorientante. Nel monologo finale, Bateman, con sguardo morto, “senza alcuna speranza per un futuro migliore”, come dice egli stesso, esprime il suo odio per tutti e il suo dolore acuto e costante, e chiude così: “Ma anche dopo aver ammesso questo, non c’è catarsi. […] Non ricavo nessuna conoscenza più profonda di me stesso. Questa confessione non ha significato.” La confessione per avere un significato ha bisogno di un ascoltatore, inesistente in un mondo socialmente atomizzato. Non c’è liberazione, non c’è avanzamento, non c’è conoscenza di sé stessi: rimane solo il flusso di immagini inani che gli scorre davanti, mentre parla, senza senso e senza scopo. È una tragedia senza catarsi.