Accordo tra Cina e Vaticano


Il 22 ottobre il Vaticano e la Cina hanno deciso di rinnovare, di nuovo in forma biennale, la trattativa sulle nomine dei vescovi dello Stato sinico, la quale prevede il riconoscimento formale, da parte del governo cinese, dell’autorità del Papa nella Chiesa cattolica romana e la concessione delle nomine dei vescovi della Cina; il Vaticano, d’altro canto, accetta che rimangano in carica i vescovi già nominati dall’amministrazione di Xi Jinping.
Ma cosa ci guadagna il governo di una nazione di oltre 1’400’000’000 abitanti da un accordo che riguarda poco più di 12 milioni di fedeli?
Innanzitutto, la Cina ha intrapreso in Africa, dove il 19,4% della popolazione aderisce al cattolicesimo, diversi progetti, che si sono fatti più numerosi e dispendiosi durante la pandemia di Covid-19: Xi ha, per esempio, stanziato 2 miliardi di dollari, destinati ai paesi in via di sviluppo più colpiti dall’ultimo coronavirus, che sono in maggior parte africani.
Inoltre il governo Xi è stato accusato, da diverse testate giornalistiche (cui Bloomberg, Der Spiegel e The Atlantic) di star utilizzando i “campi di rieducazione” (definiti “campi di concentramento” da funzionari di stato americani), costruiti con il pretesto di una campagna contro il terrorismo, per detenere, in svariati casi senza processo né capi d’accusa, da 1 a 3 milioni di uiguri (stime di Guy McDougall, ONU e Randall Schriver, US DoD), i quali costituiscono una minoranza etnica di fede islamica della regione dello Xinjiang.
Tuttavia l’Islam non è l’unica religione minacciata dal regime comunista sinico: l’amministrazione Xi ha, infatti, vietato ai monaci tibetani di insegnare ai bambini, ordinato la demolizione di diverse statue ritraenti il Buddha della confessione tibetana, fatto rimuovere ruote della preghiera ed altri oggetti di tradizione tibetana da templi e monasteri e vietato a studenti, impiegati pubblici e membri del Partito comunista di celebrare la festa buddhista di Saga Dawa; tutto ciò con il pretesto di “prevenire il separatismo”. Nel 1995, inoltre, sotto il governo Jiang, Gedhun Nyima, bambino di sei anni nelle vesti del Panchen Lama, seconda autorità del buddhismo tibetano, e la sua famiglia sono scomparsi: il governo cinese ha sempre dichiarato che il giovane si trova in ottime condizioni ma, a venticinque anni dal rapimento, a nessun osservatore indipendente è stato permesso di vedere Nyima.
Davanti a questi e ad altri innumerevoli esempi della velata politica di guerra alle religioni in atto in Cina, lo Stato della Chiesa si è espresso nella persona del Segretario per i rapporti con gli Stati del Vaticano, Paul Gallagher: “la Santa Sede ne [delle violazioni dei diritti umani in Cina] è profondamente consapevole, ne tiene molto conto e non manca di attirare l’attenzione del governo cinese per favorire un esercizio più fruttuoso della libertà religiosa”.
Questo dimostrarsi, essenzialmente, al di sopra delle parti persino quando si tratta di diritti umani e di governi autoritari, ricorda l’operato di Pio XI: questi fu al soglio pontificio durante buona parte del ventennio fascista, e raramente condannò i crimini perpetrati dalle camicie nere; non furono altrettanto rare le misure ch’egli adottò per evitare la rabbia di Benito Mussolini, né le lodi che indirizzò a quest’ultimo.
Nel 2019, i rappresentanti di 54 nazioni dell’ONU hanno rifiutato le accuse imputate al governo sinico e supportato le linee di condotta di quest’ultimo: quello che possiamo sperare è che nessuno arrivi ad epitetare Xi Jinping come “uomo che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare”.

21/11/2020

Articolo a cura di

Andrea Lupo

IL BANFO

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