Quando è il corpo a comandare il cervello


Vi assicuro che non è per puro spirito di contraddizione che adoro mettere in crisi le certezze prestabilite. È solamente perché ritengo che la verità scientifica non sia affatto uno κτήμα ες αιεί, un possesso per sempre, ma invece qualcosa di perennemente perfettibile, nella cui imprevedibilità, anzi, sta forse il lato migliore.
Perciò non stupitevi se oggi tenterò di accennarvi la James-Lange theory, una teoria neuroscientifica tanto inedita da risultare a prima vista paradossale, secondo la quale non sarebbe il cervello a comandare il corpo, ma il corpo a dirigere il cervello. Che ne dite, pura follia?
Tradizionalmente, e per tradizionalmente intendo dall’epoca della medicina greco-romana, l’encefalo è ritenuto l’organo principe della macchina umana, lo scrigno dell’anima, la chiave di volta per passare dall’ ineffabile, introflesso mondo della psiche a quello ben tangibile di un corpo che si rapporta all’ambiente esterno. Nel concreto, quando la nostra corteccia cerebrale ci informa che dobbiamo scrivere un tema, fa anche sì che possiamo prendere in mano la penna per di farlo. Spostando l’accento su episodi meno prosaici, sono gli stimoli mentali, gli stati d’animo, le emozioni che hanno reazioni e ripercussioni fisiche: il dolore ci fa piangere, l’ansia ci fa iperventilare, l’amore ci porta il battito cardiaco nella stratosfera.
Così è come tutto ci è sempre stato spiegato, e a riprova di questo abbiamo il fatto che è stato dimostrato come il sistema nervoso costituisca una grande “rete elettrica”, che permea tutto l’organismo e che connette in un millisecondo ciò che abbiamo nella scatola cranica con le ultime cellule dell’epidermide.
Eppure, a ben guardare, questo percorso viene spesso attuato anche nel verso opposto: quando proviamo una sensazione tattile, visiva, uditiva, lo stimolo elettrico procede dall’esterno al cervello, potremmo dire “a ritroso”. E se la medesima cosa accadesse anche per le emozioni? Se molti dei difficili, infiniti e bellissimi sentimenti di cui siamo capaci dipendesse semplicemente dal modo in cui i nostri muscoli, i nostri organi, il nostro sangue reagisce a un dato fisico? Il Vangelo (Matteo 26,41) recita che lo spirito è pronto mentre la carne è debole, ma se fosse esattamente l’opposto?
È quanto giunsero a ipotizzare, e tentarono di dimostrare, il medico danese Carl Lange (1834-1900) e lo psicologo statunitense William James (1842-1910); l’aspetto forse più curioso, anche se per nulla raro in campo scientifico, è che i due svilupparono una teoria nei suoi tratti fondamentali identica, ma in maniera del tutto indipendente l’uno dall’altro. Secondo i loro studi, “non tremiamo perché abbiamo paura, ma abbiamo paura perché temiamo”, cioè l’emozione altro non sarebbe che la spiegazione razionale che il cervello tenta di darsi del cambiamento al quale l’organismo sta andando incontro. Se varia la temperatura corporea, se si prova eccitazione, perfino se si respira in un certo modo, l’emozione viene “costruita” ad hoc come risposta necessitata, come “confezione” formale in grado di dare ordine alle sensazioni corporee, come etichetta. Provate a pensare, ci propone James, a uno stato d’animo senza le relative manifestazioni fisiche (riprendendo l’esempio precedente, alla paura senza brividi, sudore, tachicardia etc) e vi ritroverete piuttosto imbarazzati nel riconoscere che ci resta ben poco da definire. Un nome, un vaso di Pandora entro cui rinchiudere il grande mostro che è il corpo, e nulla più.
Bello, indubbiamente, ma un po’ velleitario forse: veniamo alle dimostrazioni più tangibili. Un momento in cui la teoria di James-Lange sembra funzionare praticamente alla perfezione è quando un’emozione sorge in seguito a uno sbaglio, ma poi risulta comunque assai difficile da sradicare: ci si arrabbia, ci si rattrista, o si gioisce, anche, per un motivo che poi risulta essere fallace o inesistente, mettiamo per un errore di lettura o interpretazione; eppure l’organismo viene stimolato in maniera tale che poi ci si convince pienamente che debba pure esistere, da qualche parte, una ragione plausibile per cui ci si sente così. Quando consciamente abbiamo compreso alla perfezione che non dovremmo provare quello che stiamo provando, la memoria corporea ce lo fa provare comunque, ce lo fa provare e basta. È un tipo di reazione che può avere sia effetti totalmente distruttivi che implicazioni straordinariamente positive, quando non perfino terapeutiche: se, probabilmente, divertirvi a scatenare la vostra ira funesta per motivi ingiustificati non vi porterà molto lontano, provate a ridere per una barzelletta un po’ scialba, o anche così, senza motivo, e noterete un seppur minimo miglioramento nel vostro umore; su più ampia scala, il sorriso meccanicamente indotto viene utilizzato spesso come espediente aggiuntivo per curare la depressione cronica e altre malattie mentali.
È singolare, almeno credo, una certa similarità con i sogni: raccolti diversi stimoli durante la veglia, di notte il cervello viene “bombardato” da questi impulsi in maniera sconclusionata, e deve trovare una maniera per ricomporre la frammentaria rapsodia secondo un nuovo codice, un altro linguaggio. Il linguaggio del sogno. Ma, allora, sarà che anche le emozioni sono solo dei sogni, delle invenzioni, delle illusioni?
Sentiamo davvero, o crediamo di sentire?
Fu Socrate stesso, d’altronde, a chiedere al giovane e promettente matematico Teeteto (un banfiano ante litteram?!): “Quale prova si può avere per dimostrare se stiamo dormendo o se sogniamo tutto quello che pensiamo?”

03/03/2022

Articolo a cura di

Maddalena Mandelli

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